È un attimo, un istante………
Riceviamo e pubblichiamo questa lettera ricevuta da un nostro lettore…..
È un attimo, un istante. Ti guardi attorno e ti ritrovi seduto su uno scalino di un benzinaio, con le mani sul viso che cercano di trattenere le lacrime, il cuore che batte all’impazzata e il caldo afoso di giornata che ti fa respirare a fatica. Attorno a te tante altre persone che si abbracciano festanti, urlano di gioia e tu in quell’attimo sei là solo che pensi: ma cosa cazzo ci sto a fare davanti a questo benzinaio?
Una decina di persone a pochi metri da te che guardano dietro le transenne che separano voi altri da un piccolo prato, dove son poste delle tribunette di tubi innocenti.
Altri sparsi in quel piazzale e in più un gruppone compatto dietro ad un cancello che urla e batte le mani così forte da far tremare l’aria. Anche loro guardano al di là di quel cancello. Tutti cercano di carpire cosa stia succedendo dopo le tribunette di tubi innocenti dove è situato un prato verde ancora più grande.
Quell’attimo dura circa mezzora; mezzora in cui pensi che sei in quella città – fino ad oggi sconosciuta a te, fino a sessantanni fa sconosciuta letteralmente al mondo – nel giorno in cui la tua città si mette l’abito più bello e centomila persone son pronte ad invaderla per ammirarla. Anche tu vorresti esser là in tempo a goderti quest’abito, nonostante due giorni prima, passeggiando alle prime luci dell’alba, l’ammiravi e contemplavi in quel solitario silenzio pensando che anche “nuda” resta la città più bella al mondo.
E in quell’attimo pensi che non riuscirai a vederla mentre si appresterà ad indossare quell’abito, ma arriverai più tardi, quando l’abito sarà un po’ macchiato, ma sempre in tempo per onorarla e magari con qualcosa in più per contemplarla.
Ma quell’attimo termina, e come termina quell’attimo cede anche un cancello che separa te, e gli altri attorno a te, a quelli schierati sulle tribunette di tubi innocenti che, all’apparenza appaiono tali e quali a te, senza nessuna distinzione; ma loro potevano stare dentro e tu no.
Entri un po’ titubante perché non puoi stare lì, ti è stato detto che non ne hai i requisiti, anche se non te ne capaciti il motivo.
Ma una volta dentro fai sentire il vocione, fai sentire che ci sei, perché è questo il motivo per cui eri là, come avevi spiegato prima a chi doveva garantire l’ordine della giornata:
«non mi interessa vedere il prato, io son qua perché dovevo essere presente.» Così rispondevi a chi voleva spostarti dalla strada per andare in un angolino rialzato dove avresti potuto vedere qualcosa, mentre tu ti opponevi in attesa di altri amici che sarebbero giunti con un po’ di ritardo.
Dentro guardi il prato e pensi che quell’attimo stia per tornare. Per almeno sessanta minuti quell’attimo ti sobbalza davanti agli occhi e subito schizza via. Fino a che ti capaciti che quell’attimo non tornerà più.
Quando quell’attimo svanisce definitivamente, gli autoctoni, che circondato quel prato per tre quarti, iniziano ad offenderti e a prenderti di mira, come se tu fossi il loro peggior nemico da sempre. Non te ne capaciti il motivo, ma reagisci in maniera differente: alzando la voce sempre più forte per ringraziare e rivolgere il giusto tribuno a chi ti ha illuso di poter rivivere quell’attimo.
Con orgoglio e a testa alta ti re-incammini verso la tua città. Ti poni dei dubbi, delle domande e quella che le racchiude tutte è: quando tornerà ad esser tutto come prima? Già perché prima quella differenza sibillina che ora contrappone chi guarda un prato da chi guarda delle transenne, non c’era. E adesso c’è. Ma ha motivo di esserci? Deve continuare ad esser così? Non riesci a fartene una ragione, non riesci a darti delle risposte valide a far sì che ciò resti come è stato oggi; sentirti un “fuorilegge”, un pericolo pubblico, in quel momento in cui il tuo piede ha passato la linea che quel cancello tracciava per terra.
Mentre ti poni queste domande son già passate quattro ore e ti ritrovi nel centro della tua città affollatissima. Affollatissima di gente che l’ha visitata solo oggi, di chi la vive ma non la respira, di chi la frequenta ma non la conosce. Di chi quel giorno ha cercato di emulare la città stessa, e ha indossato anche egli l’abito della festa. E il tuo abito, sporco, sudato, intriso della sofferenza vissuta che ti si legge anche nelle stanchezza del viso fa da contro altare al loro. E loro lo comprendono, e non reagiscono con risolini o battute come ti saresti aspettato. Ma pronunciano il nome dell’altra città, capendo che sei appena rientrato da lì e ti danno una pacca sulla spalla, uno sguardo di incoraggiamento, una parola o una frase in cui ti testimoniano la loro ammirazione per il fatto che eri laggiù.
E tu, sempre con sguardo ritto e fiero, porti dentro la consapevolezza che non servivano i loro attestati di stima per farti capire che avevi fatto la scelta giusta, ma resti felice di averli ricevuti.
Ma il dubbio per la testa ti rimbalzerà all’infinito: quando torneremo ad esser considerati tutti uguali?
Max.
Fonte: iotifopisa
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