CORNELIU ZELEA CODREANU
Nacque il 13 settembre 1899 a Husi, una piccola città della Moldavia settentrionale romena, immersa in una natura aspra e severa ove il retaggio atavico della stirpe era preservato ben più che nella capitale Bucarest, attratta dalle sirene della modernità e del cosmopolitismo.
Per noi che militiamo su posizioni antagoniste al mondo moderno, è doveroso ricordare la figura del leggendario fondatore della "Legione Arcangelo Michele" (24 giugno 1927), della "Guardia di Ferro" (20 giugno 1930) e del raggruppamento "Tutto per la Patria" (20 marzo 1935).
Inquadrabili fra quei movimenti di rinascita nazionale -sorti un po' dapertutto, nel periodo fra le due guerre mondiali, sull’onda della Rivoluzione Fascista- tali formazioni, oltre che alla salvezza della Romania dal pericolo marxista e dall’usura, intendevano procedere anche al rinnovamento spirituale della stirpe, nonchè alla realizzazione interiore del singolo militante.
Codreanu adottò, infatti, quale uniforme dei legionari, la camicia verde, colore tradizionalmente simbolo di rigenerazione, di vita e di speranza.
Ascesi, mistica del sacrificio, pratica del digiuno, fede nella forza della preghiera, culto delle icone e degli antenati, fedeltà alla monarchia, tutto ciò era riconducibile ad una visione del mondo, tipica della Tradizione Cristiano-Ortodossa, che affonda le sue radici nelle ultime, limpide espressioni dell’ethnos indoeuropeo.
Inoltre, attività lavorative, ricreative e sportive diventavano ulteriori tappe per la fortificazione psichica e fisica del singolo legionario e del Cuib o nido, cellula-base attorno alla quale si articolava la Legione.
Le lunghe escursioni nei boschi, sui monti o nelle località ove si erano svolte importanti battaglie, i bivacchi attorno al fuoco ricollegavano il fenomeno legionario romeno a quei Wandervogel che, in un mondo guglielmino avviato alla dissoluzione, cercavano nella natura incontaminata l’essenza d’una Germania archetipica e primordiale (Sublimata poi nelle trincee o fra le fila dei Corpi Franchi).
"La domenica e tutti i giorni di festa i cuiburi di ogni categoria devono mettersi in marcia. Noi non conosciamo la nostra terra. Alcuni non conoscono nemmeno il villaggio vicino. Nei giorni di festa, sotto la pioggia o col bel tempo, d’inverno o d’estate, dobbiamo uscire in mezzo alla natura. La terra romena deve diventare una specie di formicaio in cui si incontrino, su tutte le strade, migliaia di cuiburi che marciano verso ogni direzione. All’ora della funzione religiosa, ci si fermi nella chiesa che si trova sul cammino. Ci si fermi dai camerati dei villaggi vicini. La marcia è salutare. La marcia ristora e ridà vigore ai nervi e allo spirito. Ma sopratutto la marcia è il simbolo dell’azione, dell’esplorazione, della conquista legionaria" ("Il Capo di Cuib", Edizioni di Ar, Padova 1981).
Corneliu Zelea Codreanu attribuiva poi notevole importanza al canto, quale fattore di salute spirituale e di coesione del gruppo.
Ed allora, canti legionari di battaglia e vecchie canzoni dei soldati e dei contadini, dedicate alle gesta degli antichi eroi ed al lavoro dei campi, accompagnavano ovunque le camice verdi.
La creazione di mense ed ostelli a prezzi politici per i legionari -ognuno dei quali doveva considerarsi un "viandante della rivoluzione"- dimostrano una volta di più l’importanza attribuita da Codreanu alla gioventù, intesa come quella particolare predisposizione dell’anima alla purezza, all’avventura ed all’intransigenza, malgrado le avversità della vita ed il naturale decadimento fisico.
Il legionario, anche se incanutito, è sempre giovane poichè interiormente non si è mai allontanato da quella sorgente di vita che è l’adesione ai principi atemporali della Tradizione.
Emblematiche le parole del comandante legionario Ion Motza, caduto poi eroicamente nella guerra di Spagna: "Lo spirito delle fiabe dell’infanzia e delle battaglie epiche del nostro passato vive nella gioventù. Essa sente che nulla può dare alla vita bellezza e incanto se non lo slancio eroico e l’amore per un ideale. Questa purezza di sentire, dalla quale si leva la generosità del giovane per la conquista eroica della vittoria, questo vigoroso e splendido slancio verso l’ideale lo proteggono dall’angusta prigione dell’individualismo materialista e lo rendono atto ad essere integrato nella comunità" ("L’uomo nuovo", Edizioni di Ar, Padova1978).
Bellissimo, inoltre, il saluto legionario, sull’attenti con la mano destra posata sul cuore, a raccogliere la propria saldezza interiore, e poi subito slanciata nel saluto romano, verso le forze della Luce.
"Il Paese va in rovina per mancanza di uomini, non per mancanza di programmi. E’ questa la nostra convinzione. Dobbiamo quindi non elaborare nuovi programmi ma allevare uomini, uomini nuovi...Di conseguenza la Legione Arcangelo Michele sarà una scuola e un esercito più che un partito politico" ("Per i legionari", Edizioni di Ar, Padova 1984), volendoci insegnare il Capitano come solo dopo aver sottomesso il nemico interiore, cioè il proprio ego, nella cosiddetta Grande Guerra, si possa poi aver ragione di quello esterno, nella lotta politica propriamente intesa o Piccola Guerra.
Ancora validissime sono le sei leggi fondamentali del Cuib, di seguito elencate:
"1) La legge della disciplina: sii legionario disciplinato, perchè solo in questo modo sarai vittorioso. Segui il tuo capo nella buona e nella cattiva sorte.
2).La legge del lavoro: lavora. Lavora ogni giorno. Lavora con amore. Ricompensa del lavoro ti sia non il guadagno, ma la soddisfazione di aver posto un mattone per la gloria della Legione e per il fiorire della Romania.
3) La legge del silenzio: parla poco. Parla quando occorre. Di’ quanto occorre. La tua oratoria è l’oratoria dell’azione. Tu opera, lascia che siano gli altri a parlare.
4) La legge dell’educazione: devi diventare un altro. Un eroe. La tua scuola, compila tutta nel Cuib. Conosci bene la Legione.
5) La legge dell’aiuto reciproco: aiuta il tuo fratello a cui è successa una disgrazia. Non abbandonarlo.
6) La legge dell’onore: percorri soltanto le vie indicate dall’onore. Lotta e non essere mai vile. Lascia agli altri le vie dell’infamia: Piuttosto che vincere per mezzo di un’infamia, meglio cadere lottando sulla strada dell’onore" ("Il Capo di Cuib").
Decine di migliaia di giovani accorsero sotto le bandiere della rivoluzione nazionale romena, sconvolgendo i piani delle centrali bolsceviche e del grande capitale finanziario, allarmate dai successi anche elettorali della Legione.
Purtroppo, per un insieme sciagurato di circostanze, le istituzioni che avrebbero avuto il dovere di favorire il movimento legionario -e cioè la Chiesa Ortodossa e la Monarchia- disertarono tale compito.
L’alto clero tenne una posizione furbesca ed attendista, mentre il Re Carol II, circuito dall’amante e da consiglieri al soldo di forze straniere, avversò duramente Codreanu (A ciò non fu estranea una politica estera tedesca più legata a schemi sciovinistici che ad una visione europea e rivoluzionaria d’ ampio respiro, come quella dell’Italia Fascista).
Il movimento legionario, vittima delle provocazioni di un regime e di una polizia segreta -la famigerata Oculta- che non esitarono a ricorrere ad una vera e propria "strategia della tensione", cadde in un vortice quasi samsarico di violenze e di vendette.
Malgrado tutto -come possiamo leggere su "Raido", n°16, solstizio d’estate 1999- "i legionari quando dovevano vendicare il tradimento o le persecuzioni dei propri camerati, arrivando anche all’assassinio di qualche aguzzino, si costituivano poichè, ferventi religiosi, sapevano che quell’azione doveva essere espiata con la carcerazione ed in ultimo con il giudizio di Dio".
Dopo innumerevoli persecuzioni, processi ed incarcerazioni (Non a caso, fra i simboli della Legione v’erano le grate del carcere), il Capitano e tredici Camerati, durante un finto tentativo di fuga, vennero assassinati, la notte fra il 29 ed il 30 novembre 1938 nella foresta di Jilava, da alcuni gendarmi prezzolati dal nemico.
L’ordine fu dato da quelle stesse forze cosmopolite ed antinazionali che, tuttora, si ostinano a denominare Rumenia -e non Romania- la terra dei daci e dei legionari di Traiano, per svilirne i millenari legami con Roma e con il mondo indoeuropeo.
Del resto, stante l’inarrestabile avanzare dell’età oscura, un uomo cavalleresco ed eroico come Codreanu non poteva che essere "colui che doveva morire", come egregiamente definito da Cesare Mazza.
Ora, a prescindere da quanto strettamente attinente alla situazione romena dell’epoca, gli insegnamenti del Capitano e degli altri comandanti legionari offrono validissimi punti di riferimento ed elementi di riflessione per chi, come noi, si pone su posizioni metapolitiche.
Specialmente i libri di Codreanu possono essere considerati una sorta di manuali d’istruzione per una corretta formazione del giovane legionario e l’attività d’una comunità militante inserita organicamente in un più vasto progetto nazional-rivoluzionario, quale "zona libera" in un mondo di rovine (A nostro avviso, nel concetto di Cuib si possono rinvenire taluni echi del Ribelle jungeriano e dell’idea comunitaria delle saghe di Tolkjen).
Nel concludere, vogliamo ricordare come l’attuale Romania, uscita dal plumbeo regime comunista e poi caduta nelle spire del liberalcapitalismo, veda di nuovo i legionari percorrere quei sentieri dell’Onore e della Riscossa indicati un tempo da Corneliu Zelea Codreanu.
JAN PALACH
Jan Palach (Cecoslovacchia, oggi Repubblica Ceca, 11 agosto 1948 - Praga 19 gennaio 1969) è stato uno studente cecoslovacco divenuto simbolo della resistenza anti-sovietica del suo paese.
Modesto studente di filosofia, assistette con simpatia alla stagione riformista del suo paese, chiamata Primavera di Praga. Questa esperienza, però, fu repressa militarmente dalla truppe del Patto di Varsavia, ed in particolare dall'Unione Sovietica, in pochi giorni. Per protestare contro quell'iniziativa bellica, Palach prima fondò un gruppo di volontari anti-URSS e successivamente decise di cospargersi il corpo di benzina in piazza San Venceslao a Praga, appiccando il fuoco con un accendino (16 gennaio 1969). Morirà tre giorni dopo.
Decise quindi di suicidarsi morendo carbonizzato, ma preferì non bruciare i suoi appunti e i suoi articoli (che rappresentavano i suoi pensieri politici), che tenne in uno zaino molto distante dalle fiamme. Tra le dichiarazioni trovate nei suoi quaderni, spicca questa: "Poiché i nostri popoli sono sull'orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l'onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l'abolizione della censura e la proibizione di Zpravy (il giornale delle forze d'occupazione sovietiche). Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s'infiammerà".
Grazie a questo gesto estremo, Palach venne consideratato dagli anticomunisti come un eroe e un martire; in città e paesi di molte nazioni furono intitolate strade con il suo nome. Anche la Chiesa Cattolica lo difese, affermando che "Un suicida in certi casi non scende all'Inferno" e che "non sempre Dio è dispiaciuto quando un uomo si toglie il suo bene supremo, la vita". Questo clima portò a drammatiche conseguenze: almeno altri sette studenti, tra cui l'amico Jan Zajíc, seguirono il suo esempio e si tolsero la vita, anche se la notizia non è sicura poiché le TV locali non le diedero tanta importanza.
Dopo il crollo del comunismo e la caduta del Muro di Berlino, la sua figura fu rivalutata: nel 1990 il presidente Václav Havel gli dedicò una lapide per commemorare il suo sacrificio in nome della libertà. Oggi, molte associazioni studentesche, anche di sinistra, lo ricordano come una persona morta in nome dei suoi ideali: non sono pochi i circoli di giovani dedicati a Jan Palach. Tuttavia, il Partito Comunista di Boemia e Moravia ha attualmente un parere negativo riguardo la sua azione.
Paragonato a Jan Hus, pensatore e riformatore religioso boemo condannato per eresia e bruciato sul rogo nel 1415, compare in "Primavera di Praga" di Francesco Guccini: Jan Hus di nuovo sul rogo bruciava all'orizzonte del cielo di Praga...
MASSIMO MORSELLO
Massimo Morsello è nato in una famiglia della borghesia di Roma. La madre proveniente dalla Bulgaria, era emigrata in Italia dopo l'arrivo al potere del partito comunista. Egli descrisse il padre come "profondamente anticomunista" ed un ammiratore della filosofia sociale del Fascismo.
Nel 1975, all'età di 16 anni, aderisce al Movimento Sociale Italiano. Diviene un membro dell'associazione politica giovanile Fronte della Gioventù e successivamente del FUAN, un'organizzazione di destra di studenti universitari. Il FUAN era una organizzazione politica meno dipendente dal partito politico di riferimento in parlamento, rispetto all'altra organizzazione. Era bensì una sorta di laboratorio politico dell'estrema destra politica italiana sul finire degli anni '70. Durante i cosiddetti "Anni di Piombo" o della Strategia della tensione Morsello viene coinvolto in una serie di fatti violenti ed è toccato della possibilità di essere membro del gruppo terrorista neofascista, chiamato Nuclei Armati Rivoluzionari.
È in questi anni che Morsello inizia a coltivare la sua seconda passione, oltre alla politica, iniziando la carriera di musicista, con la prima performance al primo Campi Hobbit. Sempre in questo contesto acquisisce il soprannome di Massimino.
Dopo il massacro alla Stazione di Bologna avvenuto il 2 agosto 1980, Massimo Morsello, Roberto Fiore, leader di Terza Posizione ed altre sette persone sono accusate di associazione sovversiva. Fuggono dapprima in Germania, poi, dopo alcuni mesi, si rifugiano a Londra. La magistratura italiana richiede immediatamente alle autorità inglesi l' estradizione dei due, rifiutata dalle corti della Gran Bretagna poiché i crimini, di cui erano accusati, rispondevano solamente ad una natura politica. Al rifiuto delle autorità inglesi è stata avanzata addirittura l'ipotesi che Morsello e Fiore abbiano evitato l'estradizione grazie alla collaborazione del servizio segreto inglese MI6.
Intanto a Londra, Morsello continua le sue attività musicali. È in concerto con Scusate, ma non posso venire trasmessa in Italia via satellite il 22 luglio 1996.
Nella seconda metà degli anni novanta, a Morsello viene diagnosticato un cancro. Segue la controversa terapia con lasomatostatina, studiata da Prof. Di Bella, senza risultati. Nell'aprile 1999, Morsello era nella possibilità di rientrare in Italia senza essere incarcerato, per le sue precarie condizioni di salute. Egli non lascia mai la musica fino alla sua morte, sopraggiunta nel marzo del 2001 ed aiuta Fiore nella fondazione di Forza Nuova.
AHMAD SHAD MASSUD
Nato nel 1953 nel villaggio di Jangalak, nella regione del Panshir, a Nord di Kabul è di etnia tagika.
Di buona famiglia, il padre militava come ufficiale sotto il re Zahir Shah.
Per decisione del padre frequenta il Licèe francese di Kabul, la scuola "bene" dell'Afghanistan di allora, e poi il Politecnico. Tra le sue letture Mao e Che Guevara. Nel 1975 fonda il suo primo gruppo armato e quando nel 1979 l'Unione Sovietica invade l'Afghanistan diveta uno dei leader della resistenza islamica dei mujaheddin.
E' proprio in quegli anni che gli viene attribuito il soprannome di "leone del Panshir". Per sette volte i russi tentano di conquistare la regione da lui difesa e per sette volte sono respinti. Massud combatte per il suo popolo e per la democrazia. Nel 1992 la destituzione del governo filorusso di Najibullah. Massud consegna il Paese al professore teologo Burhanuddin Rabbani, che guida il partito democratico Jamiat Islammi.
E' a questo punto che in l'Afghanistan scoppia una guerra senza quartiere tra gli artefici della sconfitta del governo filosovietico. Massud, vicepresidente e ministro degli esteri, è bersagliato in prima persona dalla rivalità e dall'odio etnico di Gulbuddin Hekmatyar, capo del partito di opposizione Herzbi Islammi. La lotta spiana la strada ai Talebani che nascono come forza politica e nel 1994 sono già padroni del Paese.
Kabul bombardata tutti i giorni da Hakmatyar viene ridotta ad un cumulo di macerie. Nel 1996 l'ascesa dei Talebani costringe Massud a ritirarsi nella valle del Panshir. Controlla ancora circa il 10% dell'Afghanistan e ha tra i 15 e i 20 mila combattenti. Stringe alleanza con l'ex nemico Dostum, il generale uzbeko, rientrato Afghanistan dopo quattro anni di esilio in Turchia. Nasce così l'Alleanza del Nord.
Nel 1999 Massud compie un "giro diplomatico" in Europa, cercando di sensibilizzare i Paesi occidentali al dramma afghano, denunciando le connessioni tra Talebani e Osama Bin Laden.
La lotta di Massud contro i talebani è disperata.
I Talebani si ripromettono di conquistare anche quello spicchio di Afghanistan fuori dal loro controllo. Massud deve affrontare l'emergenza dei profughi, migliaia di persone stipate in campi fatiscenti, in condizioni sanitarie spaventose. Ma il "Leone" si difende e nelle interviste che rilascia ai pochi giornalisti occidentali che si avventurano nel Panshir si mostra fiero e determinato.
Massud è ferito il 9 settembre del 2001 in un attentato suicida commesso da due arabi che si fingono giornalisti, in possesso di passaporti belgi contraffatti. I due riescono ad avvicinare Massud e durante il colloquio fanno esplodere una bomba nascosta in una telecamera. L'attentato sarebbe maturato grazie a una triangolazione tra talebani, servizi segreti pakistani e l'onnipresente Bin Laden. Qualcuno sospetta che l'omicidio sia un segnale per i kamikaze pronti in Usa.
Per qualche giorno la notizia del ferimento di Massud è smentita. Poi il 14 l'Alleanza ammette la morte del Leone.
Il 16 settembre 2001 migliaia di persone si radunano a Jangalak per i funerali di Massud.
GIOVANNI GENTILE
Giovanni Gentile, filosofo italiano (Castelvetrano 1875 - Firenze 1944), docente a Palermo dal 1906 al 1914; passò poi a Pisa alla cattedra di filosofia teoretica; nel 1915 partecipò attivamente al Comitato pisano di preparazione e mobilitazione civile, secondo i principi espressi ne La filosofia della guerra (1914). Nel 1919 venne chiamato all'Università di Roma; dal 1922 al 1924 fu ministro della Pubblica Istruzione e legò al suo nome la riforma della scuola. A conclusione di quanto aveva scritto e fatto nel decennio precedente, nel 1923 si iscrisse al partito fascista, adoperandosi per dargli un programma ideologico e culturale: primo atto di questo suo impegno fu il Manifesto degli intellettuali del fascismo (1925), a cui Croce rispose con un contromanifesto che da allora rese insanabile il contrasto fra i due filosofi. Prospettando il fascismo come rigenerazione morale e religiosa degli Italiani, Gentile tentò di collegarlo direttamente al Risorgimento. Dal 1920 in poi il filosofo diresse il Giornale critico della filosofia italiana e numerose collane di classici e di testi scolastici; dal 1925 al 1944 diresse l'Enciclopedia Italiana. Negli ultimi anni del fascismo Gentile tentò di porsi al di sopra dei contrasti con un nuovo programma di unità nazionale (Discorso agli Italiani, 1943), ma venne ucciso dai partigiani fiorentini (15 aprile 1944) come uno dei maggiori responsabili del regime fascista.
IL PENSIERO E LE OPERE FILOSOFICHE
Al centro della ricerca filosofica di Gentile è lo studio del pensiero di Rosmini e di Gioberti, che egli considera espressione genuina e autonoma della filosofia italiana, per cui conferma e assolutizza il primato e l'autonomia del pensiero italiano e critica quanto in esso crede immissione eterogenea e deviante. Programma della sua attività di studioso sono stati quindi: la riforma della dialettica hegeliana in senso soggettivistico (Riforma della dialettica hegeliana, 1913); la critica del marxismo (La filosofia di Marx, 1899; Economia ed etica, 1934); lo studio della tradizione culturale e filosofica delle varie regioni italiane (Il tramonto della cultura siciliana, 1919; Gino Capponi e la cultura toscana del secolo decimonono, 1922; La cultura piemontese, 1922); la riforma della scuola in chiave anti-illuministica e antipositivistica (Scuola e filosofia, 1908; Il problema scolastico del dopoguerra, 1919; La riforma dell'educazione, 1920; Sommario di pedagogia come scienza filosofica, 1913-14); la formulazione di un nuovo sistema filosofico come riforma della dialettica hegeliana (Teoria generale dello spirito come atto puro, 1916; Sistema di logica come teoria del conoscere, 1917; La filosofia dell'arte, 1931; Introduzione alla filosofia, 1933). Nel tentativo di riforma della dialettica hegeliana, Gentile così procede: Hegel riteneva possibile una dialettica del "pensato", cioè della realtà nei suoi aspetti oggettivi e pensabili; secondo Gentile invece è possibile solo una dialettica (in quanto attività dell'essere che si sviluppa e diviene) del "pensante" (cioè del soggetto che pensa nell'atto in cui pensa). Ogni cosa, infatti, è reale nella misura in cui è pensata, perciò ogni realtà deve essere ridotta al pensiero nell'atto in cui la pone, ovvero al soggetto del pensiero inteso non come Io empirico o individuale, ma come "soggetto trascendentale", cioè assoluto e universale. A questo si riduce tutta la realtà: il passato e il futuro, il bene e il male, la verità e l'errore, la natura, Dio e infine i vari Io particolari. È perciò assurdo pensare che la realtà sia autonoma rispetto al soggetto ed esista prima e indipendentemente da esso. A questa erronea concezione rimane ferma la scienza che considera la natura preesistente al soggetto pensante, cadendo nel dogmatismo e nel naturalismo, cioè in una visione realistica, statica e meccanica delle cose: la valutazione gentiliana della scienza è pertanto negativa. L'oggettivismo della scienza è ancora più accentuato nell'ambito della religione che subordina il soggetto all'oggetto assolutizzato, cioè a Dio che non è altro se non una posizione o creazione da parte dell'Io. La religione sostituisce al concetto del soggetto autonomo e creatore (autoctisi) quello della creazione del soggetto da parte dell'oggetto (eteroctisi) e al concetto di conoscenza come posizione che il soggetto fa dell'oggetto, quello della rivelazione che l'oggetto fa di se stesso. Il realismo oggettivistico della religione e della scienza sono superati dalla filosofia, nella quale il pensiero in atto si libera della sua alienazione, riconoscendosi come unica realtà. La filosofia in quanto sapere assoluto è quindi superiore sia alla scienza sia alla religione. Al realismo oggettivistico sfugge l'arte, che appartiene al momento della pura soggettività spirituale ed è perciò inattuale in quanto precede l'attualizzarsi, cioè l'oggettivarsi, dello spirito. L'arte è infatti fantasia e sentimento. L'esigenza d'identificazione di soggetto e oggetto è anche a fondamento della filosofia del diritto (Fondamenti di una filosofia del diritto, 1916; Genesi e struttura della società, post., 1946). Tutti i rapporti che sono a fondamento della vita morale e sociale sono risolti nell'interiorità dello spirito, non sussistendo inter homines, ma in interiore homine. Morale e diritto riposano sulla dialettica di volente e voluto, corrispondente a quella di pensante e pensato, in quanto l'atto del pensare puro è anche un atto di volontà. Nella volontà volente si risolve la moralità che è volontà creatrice del bene. Nel voluto, che è l'oggettivazione del contenuto dell'atto volente ed è costituito dall'insieme delle leggi e delle norme che ci obbligano, si risolve il diritto. La legge nella sua normatività e nella sua coattività non è dunque estranea all'Io, ma a esso interna. Da ciò consegue l'identificazione della volontà del singolo e dello Stato nell'unità del soggetto assoluto. Su questo concetto Gentile insiste in Genesi e struttura della società dove, respingendo l'identificazione di pubblico e privato, nega l'autonomia dell'individuo di fronte allo Stato alla cui potenza non si attribuiscono limiti.
TEORIE PEDAGOGICHE
La pedagogia di Gentile s'identifica con i suoi concetti filosofici e si basa su due principi fondamentali: la realizzazione dell'identità fra educatore ed educando nell'atto educativo, che rispecchia il superamento delle distinzioni fra soggetti empirici nell'assolutezza dell'Io trascendentale, e il rifiuto di ogni carattere prefissato e astratto nel contenuto dell'insegnamento, e di ogni regola didattica, in quanto sia il metodo sia la tecnica d'insegnamento sono destituiti di senso dal momento che l'educazione è fondamentalmente un atto spirituale di autoeducazione. Questi principi non furono estranei alla riforma della scuola (1923) cui Gentile attese come ministro della Pubblica Istruzione e che, nota appunto come "riforma Gentile", venne peraltro condizionata in prevalenza da altri due fondamentali aspetti della posizione idealistica del filosofo: la concezione della scuola come funzione della vita dello Stato (rispecchiata, in particolare, nell'istituzione dell'esame di Stato a conclusione degli studi che potevano anche effettuarsi in istituzioni private) e il privilegio accordato alla formazione d'impronta umanistica.
WOLFRAM VON ESCHENBACH
Wolfram von Eschenbach era nativo di Eschenbach [Franconia]: qui nacque nel c.1170. Soggiornò a lungo alla corte del langravio Hermann di Turingia, dove incontrò forse Walther von der Vogelweide. Le sue liriche sono scritte in altotedesco medio, sono prevalentemente d'argomento amoroso secondo la tradizione del minnesang. Vi sono spunti di forte concentrazione poetica. Suggestive in particolar modo le "albe", con la rappresentazione del distacco degli innamorati al termine della notte felice. Esse si distinguono, all'interno della tradizione, per la loro visione morale e per l'esaltazione della "fedeltà". Wolfram è però soprattutto l'autore di uno dei poemi più ampi e profondi del panorama europeo del tempo. Il Parzival (c.1200-1210) è formato da circa 25 mila versi. Rielabora l'incompiuto "Perceval" di Chré tien de Troyes, si rifà alle leggende del ciclo bretone del Graal. Sfondo teologico e morale della vicenda è il rapporto tra colpa umana e grazia divina. Sfondo storico e letterario, l'innesto della nuova spiritualità delle crociate e degli ordini monastico-cavallereschi (i Templari) sulla tradizione celtica di re Artù e della Tavola Rotonda. Nell'avventura del giovane Parzival che, superati ostacoli e tentazioni arriva alla dignità di supremo custode della reliquia (il Graal), è la metafora di un processo di elevazione morale, dalle tenebre terrene del peccato fino alla luce di dio, secondo uno schema tipico degli scrittori mistici. Il poema annuncia anche un tipo caratteristico di narrazione, destinato a rinnovarsi poi nella tradizione successiva, per diventare alla fine il "bildungsroman", il romanzo cioè che ricostruisce la "formazione" dell'individuo come graduale costruzione della sua personalità etica. Una ansia inquieta spinge i cavalieri, che oltrepassano boschi e si lasciano alle spalle ricche città , alla ricerca d'altro: emotivi e nostalgici, tuttavia non si lasciano mai andare, anzi controllano con "cortese" attenzione i loro atti e le loro parole. Parzifal, ragazzo ingenuo e rozzo lascia il castello dove vive protetto dalla madre e, come i cavalieri che ammira e il cui modello segue, impara a essere riservato e a tacere. Ma deve imparare anche a superare le regole dell'educazione cortese e dell'etica cavalleresca, e parlare e interrogare quando il destino lo vuole. Sia la madre prima di partire, che Gurnemanz che si è fatto carico della sua educazione cortese, gli hanno raccomandato comportamenti gentili e prudenti, e soprattutto il riserbo. Ma questa educazione mondana e approvata dai suoi simili non gli gioverà nell'incontro fatale con il re pescatore Anfortas. Parzifal giunge al palazzo del re, giudato dal suo cavallo a briglie sciolte, e ferito, con una piaga sempre aperta, simbolo del peccato carnale inconciliabile con la purezza che i guardiani del santo Graal debbono conservare. Anfortas soffre senza speranza, e con lui tutta la corte. Basterebbe che Parzifal facesse una sola domanda, quella 'vera', e chiedesse al re cosa lo fa soffrire: la guarigione del re riporterebbe la gioia alla sua corte. Parzifal invece, memore del riserbo cortese, tace commettendo una colpa fatale di cui, come negli antichi drammi greci, è inconsapevole. E' proprio questo comportamento stoltamente 'innocente' uno dei punti più significativi del romanzo, che distingue il "Parzifal" dagli altri racconti del ciclo arturiano. Il discrimine tra perfezione cortese e mondana, e la perfezione cristiana e mistica. Per Abelardus l'etica coincide con lo spazio della ragione consapevole e della intenzione: non può esserci colpa là dove non c'è assenso consapevole, una azione non premeditata è sempre innocente. Ma per l'oppositore di Abelardus, Bernardus da Cleirvaux, che Wolfram segue, ogni atto ha in sé una forza e un significato al di là della adesione intenzionale perché rompe un ordine soprannaturale e invisibile: chi lo compie anche inavvertitamente non può quindi sottrarsi alla colpa e alla pena. Solo umiliandosi e riconoscendo la superiorità della incomprensibile volontà divina che lo ha condannato alla disperazione, Parzifal potrà ritornare al castello del Graal, interrogare Anfortas e essere infine proclamato re. Il "Parzifal", primo grande bildungsroman europeo, pone dunque il percorso morale dalla ingenua adolescente incolta e selvaggia, attraverso l'educazione mondana e cavalleresca, fino al raggiungimento della gioia mistica ottenuta con il superamento di ogni norma umana e l'abbandono alla volontà divina. In Wolfram è dunque forte la visione religiosa e morale. Ma accanto a questo è un forte amore per il fantastico. La sua è spesso una viva narrazione, sempre molto attento ai fatti della vita e al colorito esotico. Ciò che costituisce il maggior fascino del poema che ebbe una buona fortuna, oltre a un rilancio in epoca romanticistica (specie dopo l'uso fattone da Richard Wagner). Wolfram, oltre alle liriche, ha scritto anche altri poemi. Il Willehalm (c.1215) che si rifà ad argomenti del ciclo carolingio (in special modo alla "Chanson de Aliscans") e che traccia un ritratto ideale del conte Guglielmo d'Aquitania, pio cavaliere e crociato. Suo anche l'incompiuto Titurel (c.1215) ispirato anch'esso alle vicende del Graal.
ALBERTO DA GIUSSANO
Alberto da Giussano (nato a Giussano, nell'odierna provincia di Milano, e vissuto nel Nord dell'Italia intorno al XII secolo) è stato un combattente lombardo.
Inesistenti o quasi sono le notizie biografiche su di lui: l'unica certezza è che fu un cavaliere bravo e coraggioso. Secondo una tarda cronaca milanese egli fondò, organizzò ed equipaggiò la Compagnia della Morte, associazione militare di giovani cavallerizzi che ebbero una grande importanza nella Battaglia di Legnano, in quanto difesero fino alle stremo il Carroccio della Lega Lombarda contro l'esercito imperiale di Federico Barbarossa.
La tradizione dà all'Alberto da Giussano il merito di averli valorosamente condotti in quello scontro campale del 1176: alcuni storici la ritengono tuttavia falsa e poco attendibile in quanto "troppo romanzata ed idealizzante". Nell'immaginario collettivo la sua figura rimane comunque un simbolo di libertà dei popoli oppressi dal potere.
L'eroe lombardo è ricordato anche durante il Palio di Legnano, dove da anni un figurante lo rappresenta a cavallo con la spada alta verso il cielo e dopo l'ingresso allo stadio, dà il via alla competizione ippica tra le contrade. Inoltre a Legnano è stata eretta in suo onore una statua che lo raffigura, essa si trova in Piazza Monumento, nei pressi della stazione FS.
Nel 1991 egli è presente, con la Spada in una mano e lo Scudo nell'altra (così come compare nella statua legnanese), nel simbolo elettorale della Lega Nord in quanto i fondatori di tale movimento politico lo assunsero a simbolo della propria battaglia politica.